Amare il prossimo è precetto antico (almeno già dell’Antico Testamento, per intenderci). Il Signore Gesù, però, lo trasforma lo fa cristiano, non tanto perché ne allarghi lo spettro, quanto perché lo lancia nella somiglianza col Padre. Non è l’aggiunta dell’amare i nemici che rilegge cristianamente il precetto antico: è, invece, amare come vediamo fare dal Padre, come lascito di famiglia (se mi si passa l’espressione) dove appunto, non si fa distinzione nel distribuire i benefici (si manda indifferenziatamente sole o si fa piovere su giusti e ingiusti).
Il Signore aggiunge l’osservazione diretta dell’esperienza immediata e concreta e ci avverte: agire diversamente; fare, cioè, differenza tra chi è nella nostra cordialità istintiva e chi ci è avverso, è proprio dei pubblicani. Qui subito sale alla mente la divisione, così radicata nella sua società, tra giusti e peccatori [Hassidim e Hattaim] che Gesù sfuma come categorie. Addirittura l’amare segnato dal saluto è anche dei pagani, gli idolatri. Escludere dal saluto chi non sia fratello – cioè della propria riconosciuta e stretta appartenenza – è pagano. Amare il prossimo secondo Gesù è altro, richiama addirittura la perfezione del Padre perché ne possiamo essere autenticamente figli. Questa perfezione non è certo quella della sua immensa, onnipotente grandezza: invece, quella dell’universale benevolenza, quella del non distribuire con cura oculata solamente ai meritevoli, ma gratificare nel bene ogni uomo, buono o malvagio: non è la perfezione di ogni atto morale, ma ne è l’orientamento universale.
Il cristiano, proprio perché figlio del Padre non esclude, ma attua la perfezione di Dio, non tanto nella scrupolosa osservanza di precetti, quanto piuttosto nel profondo orientamento del cuore. È certo più rassicurante lo scrupoloso adempimento formale: Gesù non chiede propriamente questo, con volo davvero alto, ardito e tenero, ci chiede di imparare dal Padre.
Don Gianbattista Milani
parroco di Ballabio
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