L’immagine del pastore non è così consueta al nostro quotidiano. Anche sui nostri monti questo mestiere non è quasi più esclusivo, s’aggiunge ad una serie d’altre incombenze genericamente agricole; eppure ci è famigliare nel modo di esprimerci che viene dal vangelo: ci porta a sentimenti di riconoscente tenerezza verso il Signore Gesù che subito si profila alla nostra mente proprio lui come il Buon Pastore. In antico, il desiderio istintivo e cordiale di rappresentare in immagine il Signore Gesù, trovava ostacolo nel costume ebraico: tracciarne le linee di riproduzione fisica non si ardiva; allora, proprio questa, ne diveniva l’interpretazione simbolica: il Pastore.
Più spesso nella dolcezza del gesto di portarsi al collo e sulle spalle una pecorella in cui era così facile sentirsi un poco dolcemente identificati. Nella celeberrima pagina del capo 10° del vangelo di Giovanni, però, la figura non è solamente di tenerezza nella comunicazione con le proprie pecorelle chiamate quasi a nome; è anche l’immagine del robusto difensore che si prende a cuore con passione il compito non solo di custodia, ma più di difesa, contrapponendosi al mercenario che ne ha impegno puramente venale.
Il pastore, che è Gesù, pone addirittura la vita per le pecore: le custodisce dalle aggressioni ed ha desiderio che, il gregge dei suoi favori e della sua tenera cura, si allarghi e moltiplichi. L’immagine del buon pastore (o del pastore “bello” come ci dice l’uso linguistico del Vangelo) è richiamo pieno alla missione di Gesù che – fin dal simbolico battesimo nel Giordano – si è assunto su di sé: quella di farsi, per il suo gregge, per noi, non unicamente difesa; donarsi, anzi, liberamente fino a divenire volontaria vittima sulla croce.
Non solo tenerezza, ma cura robusta, certo amorevole a guidare lo smarrimento del gregge, ma sin pronta a sostituirlo in espiazione.
Parroco di Ballabio
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