LETTERA: “IL CORONAVIRUS IN FAMIGLIA, TANTI DUBBI SULLE PROCEDURE E ANCHE SUL FUTURO”

Sono un ragazzo di 25 anni Ballabio, provincia di Lecco, e quasi un mese fa mia mamma, con la quale vivo insieme a mio padre, si è ammalata di febbre e tosse. Dopo diversi giorni in cui la febbre non scendeva e la situazione continuava ad aggravarsi, dopo numerosi tentativi e fittizie diagnosi telefoniche dal medico di base ci decidiamo a chiamare il 112 e mia madre viene fortunatamente ricoverata.

Le fanno il tampone e risulta positiva. Nella stessa settimana in cui mia madre era a casa malata, sia io, sia mio padre abbiamo sviluppato sintomi come febbre (che poi fortunatamente passò dopo un paio di giorni) e perdita di olfatto e gusto che perdurò invece per diverse settimane. Facendo “due più due” traiamo la conclusione che, stando per una settimana a contatto con mia mamma positiva al Covid e avendo sviluppato sintomi chiaramente riconducibili al virus, anche io e mio padre fossimo positivi.

Da questo momento inizia a tenerci monitorati l’ASL di Monza Brianza dicendoci che dovevamo stare due settimane in isolamento e che i nostri nomi erano segnalati in prefettura nel caso in cui avessimo infranto la quarantena. In sostanza, ci hanno trattato per oltre due settimane come casi positivi senza però mai testarci con un tampone. In seguito, mia mamma fortunatamente migliora e riesce a tornare a casa a finire la convalescenza stando però isolata in casa nella sua stanza.

Lunedì e martedì sempre mia mamma andrà in ospedale e farà i tamponi per verificare se risulterà ancora positiva o meno. Essendo stata ricoverata in ospedale con una seria polmonite almeno lei avrà la certezza poi di essere guarita. Io e mio padre invece, dopo essere stati in casa isolati e non potendo uscire nemmeno per comprare da mangiare, da un giorno all’altro siamo “liberi” ma allo stesso tempo non abbiamo idea se siamo contagiosi o meno in quanto dopo aver chiamato numerose volte l’ASL per chiedere semplicemente un tampone di verifica se fossimo ancora positivi o meno, la risposta è sempre stata “NO” oppure “se pensate di essere positivi o avere ancora sintomi, state a casa”.

Vi faccio ora un esempio: se dal 4 maggio, come dicono, vengono riaperti gli spostamenti dentro la regione, la prima cosa che farò sarà andare a trovare la mia ragazza a Milano che non vedo da due mesi. Cosa succede se vado a trovarla anche solo per un giorno e, pur senza avere sintomi gravi, fossi ancora infettivo? Cosa succederebbe se poi la infetto e lei, a sua volta, infetta la sua coinquilina? La mia ragazza in passato ha avuto problemi respiratori, e se le succedesse qualcosa di grave a causa della mia infettività? Come potrei sopportare una cosa simile sulla mia coscienza?

Io le ho provate tutte a farmi ascoltare e ho sempre avuto le stesse risposte da ASL e medici. Sappiate solo che se dovesse succedere (speriamo di no) un nuovo focolaio dopo che si riapre, la causa principale sarebbe semplicemente questa. Come si pensa di riaprire e di ripartire se la gente malata o positiva non viene minimamente assecondata? Io non sono un ipocondriaco che ha timore di essere positivo a causa di qualche leggero sintomo, HO AVUTO CONTATTO DIRETTO CON MIA MADRE PER OLTRE UNA SETTIMANA DOPO CHE LEI È STATA CERTIFICATA POSITIVA AL COVID.

Nonostante questo, a me e mio padre, che potremmo da ora in poi avere contatti con fidanzata e amici non siamo sicuri di poter uscire di casa tranquilli perché non avremo mai la certezza di essere guariti dal virus e non essere più contagiosi.

Allora, detto questo io mi chiedo: se in Lombardia i tamponi si fanno solo a chi è già in letto di morte oppure ricoverato in ospedale con sintomi gravi, che senso ha ogni giorno fare i bollettini della Protezione Civile con il numero di nuovi contagi se poi i veri contagiati non vengono nemmeno presi in considerazione e vengono lasciati a casa senza un minimo supporto? Che senso ha riaprire (seppur gradualmente) il 4 maggio se poi si continua imperterriti sia a non fare tamponi a chi davvero ne avrebbe bisogno o a fare test sierologici? Come si pensa di riaprire attività e spostamenti se la gente non è sicura di essere positiva o meno ma soprattutto CONTAGIOSI?

Con questo sfogo non intendo puntare il dito contro nessuno o fare quello che vuole insegnare come si amministrano le emergenze, ma cara Regione Lombardia, come pensate di parlare di “fase 2” se poi permetterete a gente (come me), che non sa se è positiva o meno perché non vengono fatti tamponi o controlli, di andare in giro liberamente e infettare nuovamente qualcuno?

Costa così tanto fare un tampone in più? Perché a politici e capi della protezione civile con 37 di febbre ne vengono fatti anche 10, mentre a chi presenta sintomi più gravi o a chi ha avuto palesemente contatti diretti con positivi senza le dovute protezioni non se ne parla di fare tamponi? Ci sono forse cittadini di serie A e cittadini di serie B? La gente come farà ad essere tranquilla ad uscire di casa dopo il 4 maggio?

(Lettera firmata)