È facile, talmente ci è consueto il passo evangelico che ci propone la liturgia di questa domenica “detta del perdono”, che proprio per l’abitudine all’ascolto non ci si faccia adeguata riflessione. Sappiamo bene che nell’antica società, quella dove viveva Gesù, vi era abitudine a catalogare in “pii” (erano detti Chassidim con un termine, che in tempi diversi – il ‘700 – avrà senso in una corrente spirituale nella diaspora ebraica) e Chatt’aim, erano semplicemente tutti quelli che noi diremmo non praticanti (la parola diretta dice: peccatori). Proprio passi come quello che leggiamo, a noi hanno dato dei cliché interpretativi che rovesciano l’insegnamento di Gesù.
Nella valutazione comune attorno al Signore, vi era molta stima nei confronti dei farisei e invece noi facilmente li interpretiamo negativamente; così non riusciamo a cogliere l’insegnamento di Gesù che si attaglia proprio a noi. Sì, a noi che curiamo il rapporto col Signore e – proprio come quell’uomo che ne andava fiero – rischiamo di risolverlo in cose da fare: andare alla Messa, tranquillizzarci perché non abbiamo mancato di confessarci.
Badate che sto facendo esempi addirittura coi sacramenti! Gesù si rivolge al possibile fariseo che è in me, rassicurato dalle proprie buone pratiche. Non certo le disprezza, ma vuole abbiano senso pieno, siano cioè aiuto ad aprire il cuore, non a renderci sicuri di un rapporto col Signore che abbiamo dimenticato sia grazia, che vuol dire: dono. Il Signore non ce lo farà certo mancare, ma per la sua grandezza misericorde, non per le nostre opere.
È perdonato il pubblicano (tanto quanto – non in parabola, ma nella realtà storica – la “peccatrice” della scorsa domenica) non perché abbiano agito bene, proprio no, ma perché hanno riconosciuto il proprio bisogno del Signore. Questo deve riconoscere il mio cuore e tutte le pratiche, a cominciare dai sacramenti, qui mi devono aiutare ad arrivare.
Parroco di Ballabio
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