MILANO – Incredibile ma vero: sull’autorevole Corriere della Sera si scrivono decine e decine di righe su etimologia e significato del termine dialettale Balabiot (o Balabiott), con interpretazioni affatto diverse in pochi giorni. E sullo sfondo un’intera voce di wikipedia dedicata proprio a questa espressione. Analizzando le varie interpretazioni, emergono possibili verità differenti, almeno una delle quali riconducibile proprio al nostro paese. ma andiamo con ordine.
Il 17 settembre, domenica scorsa, il Corriere pubblica una lettera e la relativa risposta, nell’ambito della rubrica curata da Giangiacomo Schiavi. Titolo, Il fascino del «balabiott» nel racconto di un nonno.
La missiva giunge da Fabrizio, che accenna a una parola sentita dai nonni che gli ha “allargato il cuore: balabiott“.
“Si riferivano – afferma il lettore del Corsera – a un vicino di casa poco affidabile, ma l’effetto che ha suscitato quella parola è stato magico”.
Risponde Schiavi: “…mi fai pensare a Emilio Tadini e a una sua performance intorno a questa parola, che Andrè Ruth Shammah, infaticabile custode di tante memorie, ha ricordato tempo fa in un omaggio all’artista milanese (Nanni Svampa, ndr) . Dunque, Tadini giocava con la parola balabiott, ne amava la pronuncia, la bellezza, la potenza visiva, l’essenzialità con cui si fotografa qualcuno con cui abbiamo avuto, purtroppo, a che fare. Vess on balabiott, secondo un dizionario della libreria Meravigli, vuol dire essere un ballanudo, una persona poco affidabile e senza carattere, ma nella storia della parola c’è qualcosa d’altro: i balabiott erano i ballerini nudi che animavano le feste di Villa Simonetta, gioiello del Quattrocento in via Stilicone, proprietà di illustri famiglie prima di finire al Comune. All’epoca del conte Scheibler, i balli nudi crearono grande scandalo e la villa fu chiamata de i balabiott. Tadini raccontava come nel Dopoguerra, in certe balere, si potevano incontrare altri balabiott, goliardi o simil teppisti, e ne faceva leggenda”.
Finita qui? Macché…
Il dibattito prosegue, sempre sulle pagine del Corrierone, venerdì 22 settembre quando il signor Italo Goffredi scrive così – ancora nella rubrica delle lettere curata da Schiavi: “Un giorno stavo parlando con l’attore Piero Mazzarella, mi spiegò cosa voleva dire “Balabiot”. Mi disse che nel 1500, per entrare a Milano, vigevano molte gabelle da pagare: E da allora chi voleva non pagare diceva “daghel al Balabiot”, che era molto astuto e furbo. Era un abitante di Ballabio, in provincia di Lecco”.
Titolo (significativo) della lettera indirizzata al quotidiano:
“Il furbetto di Ballabio“….
C’è infine una terza via, più vicina alla prima – quella del poco affidabile “ballanudo” – ed è ben descritta dall’enciclopedia on line più importante al mondo: wikipedia. Che tratta il tema con una voce tutta sua e ne dà una interessante interpretazione storica accanto a quella squisitamente linguistica (Balabiòtt è un termine mutuato dalla lingua lombarda, traducibile in “danza nudo“, per definire un guitto oppure una persona facile a mostrare entusiasmo e sicurezza, ma di scarsa capacità realizzativa e dubbia integrità morale. Anticamente, nel glossario contadino lombardo, venivano definiti balabiòtt il bubo e anche la tortrice; animali apparentemente innocui che possono rivelarsi particolarmente dannosi).
Il significato “moderno” secondo l’enciclopedia libera nasce nel 1796 durante le fasi costituenti della Repubblica Cispadana, dopo la conquista dei territori italiani fatta dall’esercito rivoluzionario francese, guidato da Napoleone Bonaparte.
“In quei mesi di grandi rivolgimenti sociali, come in tutte le città europee liberate dalle istituzioni assolutiste, anche a Milano venne piantato l’albero della libertà, una sorta di palo addobbato con ghirlande e nastri, sormontato da un rosso cappello frigio, simbolo della Rivoluzione francese. Sotto questi “alberi” la gente era invitata a ballare al suono di musiche patriottiche. Si trattava di balli privi di formalità tradizionali, ai quali partecipava soprattutto la fascia di popolazione più umile e indigente, spesso composta da scamiciati e straccioni seminudi. Da cui l’appellativo balabiòtt.
Altre fonti, più credibilmente, attribuiscono una valenza politica a balabiòtt, ritenendo sia la versione lombarda di sanculotto, italianizzazione del termine francese sans-culottes, cioè privi di pantaloni portati dall’aristocrazia. In effetti, i balli intorno all’albero della libertà, iniziavano con la celebre danza della Carmagnola, per eseguire la quale venivano spesso scritturati attori di strada, a scopo dimostrativo e di richiamo, vestiti da sanculotti.
All’inizio del XX secolo il termine balabiòtt fu anche utilizzato dai contadini ticinesi per designare la comunità eterogenea di utopisti/vegetariani/naturisti/teosofi insediatasi sulle pendici del monte Monescia. Tale comunità si ispirava alle teorie di Bakunin, Mühsam (famosi anarchici), Oedenkoven, Ida Hofman e Gräser (socialisti utopici), Franz Hartmann e Pioda (teosofi ed umanisti vegetariani), von Laban (teorico della “riforma della vita”). La comunità degli utopisti del Monte Verità (così venne rinominato il monte), era finanziata soprattutto dalla nobiltà nordeuropea, affascinata dalle teorie che miravano all’elevazione spirituale e fisica dell’uomo, anche attraverso l’espressione artistica dei corpi e la rivoluzione sessuale.
Gli abitanti locali, in effetti, osservavano con perplessità, gli atteggiamenti anticonformisti dei membri della comunità del monte e, a causa delle loro stramberie, li avevano sbrigativamente catalogati come stolti“.